giovedì 4 febbraio 2016

Mario Donnini: il portavoce delle leggende

Credeteci (o non credeteci, fa lo stesso), parlando con Mario Donnini ho realizzato un sogno. Ho conversato con un mio personale eroe, che raccontando di motori e passione per gli stessi è diventato un punto di riferimento per i piccoli avventori della scrittura come me. Le storie di Mario su Autosprint, soprattutto quelle che fanno parte della fortunata rubrica Cuore da Corsa, mi hanno fatto conoscere lati del motorsport che non immaginavo esistessero. Ora io tenterò, con molto coraggio ma probabilmente scarso rendimento, di fare il suo stesso lavoro, raccontando a modo mio il Donnini pensiero.



Il mondo dell'automobilismo sta vivendo un momento particolarmente nostalgico, secondo te? Oppure è un fenomeno che c'è sempre stato?
"Credo che l'unico uomo capace di non provare nostalgia sia stato Adamo. Noi in un certo senso siamo malati di nostalgia. Ed è un sentimento eterno. Gli appassionati di qualche decennio fa rimpiangevano l'automobilismo degli anni trenta. Insomma, l'era d'oro del Grand Prix, con Nuvolari, l'Alfa Romeo, l'Auto Union, la Mille Miglia... In verità ciascuna epoca ha partorito degli eventi molto belli e delle storie straordinarie. Tuttavia gli appassionati sono molto vigili e critici su quanto accade nel presente, salvo poi esserne davvero felici solo in differita. Questo meccanismo psicologico non si vede solo in questo ambito, ma è generalizzato. Anche nelle questioni affettive, ad esempio: le persone si struggono per gli amori persi e vedono il passato con una certa melanconia. Se noi guardiamo alla storia della cultura mondiale negli ultimi decenni scopriamo che il post-moderno, con la sua assenza di valori, ci ha costretto a guardare indietro per poter realizzare il presente. Non per niente esiste una forte ricerca del vintage e c'è un sistematico reflusso verso il passato anche nella moda e nell'arte. Mancando una visione nitida del presente e dovendo fare i conti con una preoccupazione verso il futuro, psicologicamente siamo portati a rifugiarci nel passato. Per concludere: non credo che esista un passato migliore del presente, ma il passato ha sempre un proprio fascino che vogliamo riscoprire".

Con l'appuntamento "Cuore da Corsa", che tu realizzi per Autosprint, hai trovato un modo per canalizzare questo bisogno di storie dal passato, non senza attingere a una doverosa attrezzatura statistica. Sei consapevole di essere diventato per molti un prezioso portavoce del motorsport che fu?
"Ti ringrazio, e devo dire che sarei onorato di essere considerato in questo modo. Prima di tutto devo dire che ho un rapporto fruttuoso con i miei lettori. Mi ritengo fortunato, perché riesco ancora a parlare con appassionati veri che hanno un certo tipo di sensibilità sia verso i ricordi sia verso il presente. Facciamo parte di una fratellanza segreta, o per meglio dire di una loggia virtuosa che mira a destabilizzare e destrutturare le negatività del presente attingendo dal passato. L'automobilismo ha un suo DNA che è radicato nel passato, e talvolta per ripulirsi degli errori del presente deve tornare indietro, recuperando racconti e momenti che possono aiutare a capire ciò che siamo oggi".



Perché secondo te nessun pilota ha come obiettivo traguardi come la Triple Crown (vale a dire la vittoria nella 24 Ore di Le Mans, nella Indy 500 e nel GP di Montecarlo o nel Campionato del Mondo di F1)? Come mai attualmente è difficile trovare qualcuno che voglia dimostrare di saper vincere con tante vetture differenti?
"Prima di tutto rendiamoci conto che chi l'ha conquistata, cioè Graham Hill, non aveva idea di conquistarla. Competere in tutte queste grandi corse è più una voglia di rendere completa la propria carriera. Nessuno approda nel motorsport con l'idea di vincere la Triple Crown. Mi viene in mente Emerson Fittipaldi, che se avesse voluto provare a vincere la 24 Ore di Le Mans sarebbe entrato ancor più nella leggenda.
Io credo che adesso la specializzazione sia diventata quasi ossessiva. Se vinci parecchio e guadagni tanto correndo in una sola categoria cerchi di rimanerci il più possibile, finché ne hai. Non c'è interesse a rimettersi in discussione. Sono meccanismi in realtà più economici che agonistici, e in fondo che interesse potrebbe avere un cercatore d'oro ad abbandonare una miniera appena trovata?
Guardando indietro c'era certamente più versatilità, in stile Michel Vaillant per intenderci. Un pilota, seppure da fumetto, che passava dalle F1 alla 24 Ore di Le Mans, per poi trasferirsi nei rally e quindi tornare di nuovo in pista a Rouen, o a Reims. Un concetto culturale un po' alla francese che è stato ripreso ultimamente da pochissimi. Proprio un francese, Sebastian Loeb, è uno tra questi. Ha sempre avuto voglia di misurarsi con diverse categorie, a cominciare proprio dai prototipi di Le Mans, passando poi per il WTCC e la Dakar. Senza dimenticare la F1 con Toro Rosso, se solo gli avessero dato il permesso. Un altro con la mentalità neoclassica - ma più terrestre rispetto al marziano Loeb - è Stephane Sarrazin, che ha guidato davvero di tutto nella sua carriera.
Non manca proprio nulla per avere altri piloti del genere. Anzi, qualcosa manca: le palle. Graham Hill ha vinto la Indy 500 da rookie nel 1966, anche se pochi si ricordano che in realtà aveva provato la qualificazione ancor prima, nel 1963. Non è una cosa da tutti i giorni passare da una non qualificazione alla vittoria! Non sappiamo ancora quali saranno le futuri tendenze, ma due cose sono certe: la specializzazione è diventata esasperata ma nessuno ha mai vietato ai piloti di volar di fiore in fiore".

Dire che i piloti di oggi sono meno comunicatori dei piloti di ieri è una moda oppure secondo te c'è del vero?
"Consideriamo, prima di tutto, che fino agli anni '70 le interviste a un pilota erano rare. Si trattava di un pleonasmo: il pilota era pagato per correre, e guardarlo era l'unico modo per "leggerlo" davvero. Poi la crescita dei media e la commercializzazione hanno portato i piloti a dover essere non solo bravi a guidare, ma anche a parlare e pensare. I primi personaggi in tal senso furono Jackie Stewart, uomo accomodante ma furbo e bravo a gestire i media, e Niki Lauda, lingua tagliente con la storia della sua vita stampata sul volto.
In realtà il vero problema è che i piloti delle ultime generazioni sono terrorizzati. Un tempo il pilota aveva paura di correre e il fatto di poter lasciare la pelle portava a una grossa iniezione di sincerità: non c'era nulla da perdere... Oggi i piloti rischiano molto meno in pista e parecchio di più fuori, in pratica quando parlano; può succedere di dire la parola sbagliata, si offendono gli sponsor e la carriera è finita. Molti sono nati con il terrore del microfono, e risultano banali, incolori, insapori.
Da questo punto di vista Michael Schumacher è uno dei più grandi maestri. Nonostante un'esposizione mediatica pari se non maggiore a quella di un qualsiasi Presidente degli Stati Uniti, riusciva a parlare per ore senza in realtà dire nulla. Come pilota lo ammiro infinitamente, ma dal punto di vista mediatico faceva dell'ovvietà una barriera. Quando vinceva era abbastanza contento, quando perdeva moderatamente insoddisfatto, e tutto il resto era ugualmente ovvio, il che è mortale per un appassionato intelligente.
Ho ripescato le vecchie interviste ai piloti degli anni '70, e a leggere Graham Hill mi è sembrato di trovarmi davanti a Oscar Wilde: ogni risposta era un aforisma, ogni tre righe un motto di spirito. Era terrorizzato dalla banalità.
Se noi smettessimo di guardare i piloti come degli eroi da sognare, scopriremmo che vengono educati esattamente per far sì che non ci piacciano. Alcuni riescono ad uscire dall'anonimato, ma per la maggioranza si fa fatica. Sono monocorde. Per quanto mi riguarda infatti preferisco intervistare un vecchio pilota, che con la grinta e la rabbia attacca, critica e giustifica come se fosse ancora in pista".

E intervistare uno che ha voglia di parlare fa tutta la differenza del mondo.
"Lavorando per un editore ci sono giustamente degli schemi e delle indicazioni da seguire. Quando vengo lasciato libero, cerco di fare sempre delle cose che divertono anche me. Se io mi diverto probabilmente si diverte anche il lettore, perché dall'articolo o dal libro traspare la mia emozione e la mia voglia di scrivere. Non posso far finta di stare bene quando racconto una storia, altrimenti si nota. Ho da poco parlato con René Arnoux e ho goduto come uno scemo. Quando conosco i miti della mia fanciullezza è sempre straordinario, è come se incontrassi Tex Willer e andassi a cavalcare con lui. Sfatiamo il mito che per scrivere bene bisogna soffrire. La sofferenza aiuta forse solo nella poesia, ma per me nella prosa ci vogliono ritmo e felicità, samba e bossa nova. Chiaramente ci vuole anche la giusta professionalità, che deriva dallo studio, dalla lettura, dalla propria precisione. Ma alla fine scrivere deve essere un'esplosione di gioia".

Com'è cambiato il lavoro giornalistico rispetto a quando hai iniziato?
"La tecnologia ha stravolto tutto. Una volta avevo la macchina da scrivere; se alla decima riga non avevo ancora avuto un guizzo, dovevo appallottolare il foglio. Era una cosa frustrante. Ora non butti mai via niente: arrivi a metà schermo e puoi decidere che lo sviluppo diventi l'attacco e viceversa, puoi cambiare i tempi verbali senza dover sprecare carta e così via.
Il giornalismo è cambiato tanto. Una volta il giornalista andava dietro alla notizia, possibilmente cercando di arrivarci per primo. Attualmente la notizia arriva da te già preconfezionata; è tutto blindato, e internet è una melassa indistinta come lo è la televisione che ancora resiste bene. Prendiamo ad esempio la F1: ci sono delle barriere che impediscono al giornalista di parlare con i piloti, tirate su da quelle che ormai sono corporation piuttosto che scuderie. Siamo alle soglie dello spionaggio industriale, in sostanza.
Vent'anni fa Cavicchi sarebbe stato felice di uno scoop, adesso sarebbe più lieto di leggere una storia raccontata bene e con una chiave di interpretazione interessante. Direi che il giornalista ora è un mediatore, che racconta grandi e piccole epopee, grandi e piccoli personaggi destreggiandosi tra atmosfere e realtà. Possiamo essere più rilassati continuando a raccontare il nostro sport aiutando i lettori a capire la realtà con la nostra interpretazione".

Il motorsport italiano è favorito o sfavorito dalla presenza mediatica della Ferrari?
"Credo che dal 1947, cioè da quando la Ferrari è nata, siano passati pochi anni prima che diventasse leggenda. È stato un processo immediato. La Ferrari è una specie di virtuosissimo buco nero, che assorbe anche le luci altrui, piccole e grandi che siano, per via della sua grandezza. In questo momento il problema non è la Ferrari e non lo è stato nemmeno in passato. Il problema è che ora non c'è manco un Euro. L'Italia sta pagando una grande crisi, chiaramente anche nel settore sportivo dell'automobilismo. Non è un caso che siamo spariti dalla F1 con i nostri piloti. La situazione è così assurda che non si riesce nemmeno a dare la colpa a qualcuno in particolare..."

Quali sono le serie motoristiche che segui?
"Allora... Vivo il rapporto con la F1 come se lei fosse una di quelle suocere proverbiali odiate dall'italiano medio: è una cosa che non ti piace ma che non puoi ignorare. La 24 Ore di Le Mans è l'amante, mentre la 500 Miglia di Indianapolis è la collega che cerco di frequentare perché è arrapante. La vecchia Parigi-Dakar, quella africana, è la ex fidanzata che un po' rimpiangi. Ma la compagna ideale, che nel mio caso ho potuto vivere da vicino, è il Tourist Trophy all'Isola di Man".



Qual è invece la gara che non hai mai vissuto e che ti piacerebbe vedere dal vivo?
"La 24 ore del Nurburgring. Non ci sono mai stato, ma è da una vita che voglio andarci. Non mi interessa chi corre, ci vado solo per il circuito. Mi piacerebbe sfondarmi coi salsicciotti sul ponte di Adenau, vedere un po' di gara dal paddock, osservare il lavoro dei meccanici, i cambi pilota. Insomma, girare il più possibile per vivere la gara al massimo. Non sono uno che sta in sala stampa tutto il giorno..."

Cosa ne pensi della neonata serie, voluta da Alejando Agag, con le vetture guidate da dei software invece che da piloti veri?
"Màh, io credo che il problema sia esattamente il contrario. Attualmente siamo senza la figura del campione leggendario, e sostituirlo con la tecnologia diventerebbe automaticamente una parodia. Giocare con la Polistil è una parentesi conclusa della mia vita e far sì che questo passatempo diventi una cosa seria mi fa venire grossi dubbi. Io non voglio vedere una storia d'amore tra robot, preferisco l'essere umano con il suo cuore pulsante. Abbiamo bisogno dell'umanità, non del silicio. Non mi interessa per nulla vedere un computer che va a trecento all'ora, preferisco un pilota che decide secondo dopo secondo sul da farsi. Amo lo sport dei motori perché a differenza di altri unisce la meccanica all'umanità, con la compenetrazione di variabili infinite. In conclusione: se Omero fosse nato oggi avrebbe ambientato qui, tra gli eroi e la tecnologia delle corse, le sue Guerre e le sue Odissee..."

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