venerdì 6 maggio 2016

Intervista a Beppe Donazzan: Una vita sui campi di gara

Ayrton Senna: la vita in quattro giorni, di Beppe Donazzan, è stato uno dei primi libri sull'automobilismo che ho letto. Uscì nel 1998 e mi avvicinò alla figura del grande campione brasiliano, che avevo visto correre solamente durante la mia infanzia. Il mio primo vero ricordo legato alla F1, quindi non dipendente dal racconto di altri, è relativo al GP del Sudafrica del 1993. Per cui non ho vissuto dal vivo molte delle gesta di Ayrton Senna.


Beppe Donazzan con Ayrton Senna

Beppe Donazzan, invece, è un testimone diretto di quel periodo e di altre straordinarie storie. Ha scritto libri su Michael Schumacher, sulla storia dell'Aprilia, su Miki Biasion, sulla Dakar, sui rally e sul San Martino. Ha vissuto come cronista eventi sportivi leggendari, come l'avventura del Moro in Coppa America, le Olimpiadi Invernali, il Giro d'Italia di ciclismo, e pure eventi di cronaca nazionale - l'epoca delle Brigate Rosse, la strage di Bologna.
"Ho iniziato come fotografo, a Bassano. Ero un giovane appassionato, leggevo Autosprint e seguivo i rally. Negli anni sessanta il Veneto era una zona straordinaria per chi amava queste corse. Grazie a una lettera scritta a mano i fratelli Piccinini della ActualFoto di Bologna mi assunsero per fare le fotografie di gare come la Bassano Monte Grappa e la Trento-Bondone. Tutto è partito da lì, visto che in seguito ho cominciato a scrivere articoli su queste e altre corse, finendo per collaborare con Autosprint, con il Gazzettino e con svariate altre testate. Nella mia carriera di corrispondente ho potuto vivere da vicino sia i fatti di cronaca sia grandi manifestazioni sportive, e questo spaziare tra temi così differenti mi ha permesso di ampliare la mia visione del mondo e di provare grandissime emozioni".

Il primo libro su Senna, uscito nel 1998, toccò immediatamente gli animi degli appassionati.
"Senna arrivò a Padova per presentare la linea di biciclette della Carraro con il suo nome. La fondazione per i bambini poveri brasiliani avrebbe ricevuto le royalties per le vendite di quelle bici, e Senna era felice di aver raggiunto tale accordo. Era giovedì 28 aprile, e allo Sheraton ci fu la conferenza stampa alla quale partecipai nel ruolo di moderatore. Conoscevo già bene Ayrton e talvolta ci eravamo incontrati proprio in Veneto per via dei suoi sponsor locali come Segafredo e De Longhi. Alla conferenza parlammo della sua passione per i pedali, a partire dalla sua biciclettina gialla. Alla fine, insieme a Carlo Grandini del Corriere, riuscimmo a intervistarlo sul campionato di allora, che lo vedeva in ritardo rispetto a Schumacher e alla guida di una vettura che non era più il missile tecnologico dell'anno precedente. Rispose alle nostre domande con immensa cordialità ma si percepiva tensione da parte sua. Era turbato, e questo suo sentimento, alla luce di quanto accadde in seguito, fece apparire l'intervista come un testamento. Dieci giorni dopo la tragedia di Imola scrissi di getto quel libro, ma per evitare qualsiasi tipo di speculazione aspettai altri 4 anni per la pubblicazione".

Che personaggio era Ayrton Senna?
"Prima che un grande pilota, era un grande uomo. Aveva una sensibilità spaventosa, e un carismo palpabile che non ho mai più ritrovato in nessun altro campione sportivo. Da quel punto di vista era inarrivabile. Aveva uno spirito, una grandezza interiore che lo metteva in risalto rispetto agli altri. Ho visto con i miei occhi il suo enorme talento in pista. Era un fuoriclasse, e più delle vittorie mi ricordo delle emozioni che dava in qualifica, con un ultimo giro che pareva un colpo di pistola. Tutti lo aspettavano e anche in condizioni di non competitività riusciva a fare miracoli. In quella corsa maledetta di Imola, che mi lasciò scioccato, la F1 concluse drammaticamente uno dei suoi più grandi capitoli".


Con Viviane Senna

Che differenze ci sono tra quella F1 - in quanto a impegno giornalistico - rispetto al nuovo millennio?
"Mi ricordo che la pitlane era un luogo molto più accessibile. Dopo le conferenze stampa di rito si potevano avvicinare i piloti, scambiare delle parole in libertà, costruire dei rapporti che andavano al di là del lavoro. Dopo il 2000 c'è stato un crescente uso degli uffici stampa, con la loro rigidità e con le loro tempistiche. Una perfetta organizzazione che però ha penalizzato il fattore umano. Anche il lavoro giornalistico è diventato, di conseguenza, più povero. Ora ci sono i social media, strumenti che stanno permettendo ai piloti di dire la loro, creando dibattito o polemiche. E ciò è positivo anche per il giornalismo, perché il mestiere è quello di cercare di capire veramente cosa accade anche dietro le quinte".

I tuoi libri sui rally sono diventati un must per gli amanti del genere.
"Ho sempre cercato di focalizzarmi sull'aspetto umano più che sui fattori tecnologici, e pur se il mondo dei rally ha portato tante innovazioni tecniche, è anche un ambiente dove si sente forte la componente umana. Ero partito con il raccontare storie specifiche con "Tutti i figli del San Martino" e con "Miki Biasion, Storia inedita di un grande campione" ma poi ho voluto continuare a esplorare l'argomento con i due volumi de "Sotto il segno dei rally". La parte della mia vita giornalistica al seguito dei rally è stata piena di emozioni e legata a storie come quella ad esempio di Sandro Munari, capace di vincere il Tour de Corse nel 1967 con la Fulvia HF Coupé che all'epoca non era certo la favorita".


Con Markku Alen

E poi c'è il capitolo Dakar...
"È la gara delle grandi storie, dei grandi uomini, delle grandi fatiche, dei dolori e delle ferite. Tutto questo in mezzo all'immensità del Sahara. Maledicevo ogni volta il giorno in cui avevo deciso di partire, poi tornavo a casa e sentivo la mancanza, con chiari aspetti di masochismo. Chi ha fatto la Dakar africana non potrà mai scrollarsi di dosso il ricordo. Ho conosciuto tantissime persone, alcune molto bene, altre il tempo di due o tre parole. Molte le rivedo dopo tanti anni e ho davvero l'impressione che in realtà non siano passati che pochi minuti da quei giorni. La Dakar africana era una corsa fuori da ogni immaginazione, e capisco chi dava del fuori di testa a chi la andava a fare. Ma chi partecipava sapeva di andare incontro alle difficoltà e alla prospettiva di non tornare a casa".

Che cosa ti è rimasto di quel periodo?
"Mi resi conto di cosa era davvero l'Africa. Stare a contatto con le popolazioni locali e in mezzo al deserto mi ha fatto capire l'andamento di certi fatti attuali, come ad esempio l'emigrazione verso l'Europa. L'Africa era ed è una terra ancora di conflitti che risente ancora di ciò che resta del colonialismo, e l'Occidente ha fatto ben poco per migliorare la situazione nel corso degli anni. Devo dire che la Dakar, in questo senso, è stata più che una corsa. Sabine era molto contestato per l'organizzazione, gli suggerirono di chiudere tutto per via delle morti e della pericolosità, ma ben pochi ricordano che a margine venivano aiutate le popolazioni, portando l'acqua, aprendo pozzi, lasciando qualsiasi oggetto che potesse essere utile. Io stesso tornavo a casa con la valigia decisamente più vuota. È vero che tutto questo è un granello di sabbia nel mare della povertà, ma pur piccolo che fosse l'aiuto poteva essere di grande conforto. A Fabrizio Meoni, grandissimo pilota e ancor più grande uomo, questa corsa era entrata dentro; grazie alla sua fondazione e con l'aiuto di Padre Buresti di Castiglion Fiorentino sono state costruite scuole e altre strutture. Al loro fianco anche la comunità dei piloti francesi ha contribuito a portare conforto. Purtroppo la Dakar in Africa è morta per via del terrorismo e anche l'attenzione verso quei luoghi non è più la stessa".




Di quale pilota attuale ti piacerebbe raccontare la storia?
"Restando sulla F1 mi piace molto Nico Rosberg. È un ragazzo di bell'aspetto, ha una guida pulita, parla bene tante lingue ed è molto disponibile, sia con i tifosi sia con i giornalisti. Per me è uno di quei personaggi che può avere l'aura dei piloti d'altri tempi, e non sembra costruito da uffici stampa o da piani di marketing essendo più diretto e genuino. Ha fatto una bella gavetta per arrivare dove è ora, e attraversa un momento incredibile. Inoltre la sua storia familiare, con un papà campione del mondo, è sicuramente molto interessante. Certamente questo gli ha aperto le porte dell'ambiente, ma con una pressione maggiore rispetto ad altri. Mi sembra di intuire che potrà accadere anche con Mick Schumacher. Anche lui per avere successo dovrà resistere all'enorme peso del suo cognome: gli serviranno delle fondamenta psicologiche non da poco".

Che altre serie motoristiche segui a parte la F1?
"La MotoGP, che è straordinaria. Hanno un'andatura pazzesca e c'è un rapporto diverso sia verso i tifosi sia tra gli stessi piloti. Mi sembra che rispetto alla F1 ci sia più spontaneità. I ragazzi della MotoGP fanno cose incredibili, sembrano superuomini ma in realtà hanno solamente una voglia esasperata di correre, e questo vale sia per il primo in classifica sia per l'ultimo arrivato. Poi c'è questo grande personaggio, Valentino Rossi, che nonostante l'età si permette di fare delle stupefacenti prestazioni. Non nascono spesso campioni del genere. Valentino riesce a catalizzare l'interesse come mai nessuno era riuscito prima a fare. In questo mi ricorda Alberto Tomba, un campione che ha improvvisamente fatto incollare davanti alla televisione milioni di persone che non sapevano nemmeno andare sugli sci. Noi italiani abbiamo questa tendenza a essere trascinati dall'evento o dal personaggio, ma purtroppo è anche un segno di una cultura sportiva relativamente bassa".

Sono infatti accaduti tante volte, nella storia sportiva italiana, innamoramenti e disamoramenti repentini per determinate discipline.
"Ci sono tanti esempi. È capitato per la Coppa America, prima con il Moro di Venezia a San Diego (che segui personalmente) e poi con Luna Rossa. Ogni 4 anni ci accorgiamo di avere uno squadrone nella scherma, ma durante le pause tra un'Olimpiade e un'altra lo spazio per le vittorie nei mondiali e negli europei è ridottissimo. Pure il giornalismo deve riflettere su questo, ovviamente, perché la cultura sportiva deve essere insegnata sotto tutti i punti di vista. L'episodio che più mi fa pensare a riguardo è relativo a uno dei momenti più emozionanti della mia vita. Parlo della staffetta a Lillehammer, alle Olimpiadi. Era Italia contro Norvegia, la piccola nazione contro la grande potenza dello sci nordico. 250mila persone assistevano sul posto a quell'evento, tanto per far capire la portata, e c'ero anch'io. Negli ultimi 500 metri tutti i norvegesi gridavano e incitavano Bjørn Dæhlie, il fuoriclasse, mentre il nostro Silvio Fauner gli rimaneva attaccato. Poi, con un colpo di reni, la medaglia d'oro andò verso la staffetta italiana, azzittendo in un sol colpo il boato infernale dei tifosi locali. Dopo trenta secondi di silenzio irreale il pubblico cominciò ad applaudire i vincitori, tributando nel miglior modo possibile quello sotico momento. A me questa reazione restò dentro, e sono convinto che a parti invertite non sarebbe mai stata la stessa cosa".

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