mercoledì 24 febbraio 2016

"Tino Brambilla: Mi è sempre piaciuto vincere". La recensione del libro di Walter Consonni

Prima di tutto, dico che fare un libro su Ernesto "Tino" Brambilla era doveroso. Walter Consonni, cioé l'autore del volume edito da Giorgio Nada intitolato "Mi è sempre piaciuto vincere", ha così colmato un vuoto generazionale. Chi ha visto Tino Brambilla in pista avrà riletto con piacere certi passaggi di questo libro, mentre chi è più giovane (il sottoscritto, ad esempio) ha potuto gustarsi ogni singolo aneddoto. Per chi è appassionato di motori è un tuffo nel passato e anche una ventata di aria fresca.



Tino Brambilla, il protagonista di questa biografia, è stato un personaggio centrale nell'epoca d'oro dell'automobilismo italiano e lombardo. Nella sua officina è passato tanto lavoro e sono state tante le personalità di spicco intervenute in un'esistenza vissuta davvero a gran velocità. I racconti, per altro dettagliati, danno l'idea di come fosse il mondo del motorsport tra gli anni '60 e gli anni '70, quando il fratello di Tino, Vittorio, correva in F1 con i colori Beta emozionando non solo il pubblico italiano ma pure quello inglese.

La storia di Tino parte dalle prime passioni: la bicicletta, la moto. Era un ragazzaccio, all'epoca, abituato a tiri birboni e riconosciuto come uno che non aveva paura di esternare le proprie idee. Questa coerenza di spirito lo ha accompagnato in tutta la carriera a due e quattro ruote, fedele alle proprie scelte e capace di clamorose rinunce, come nel caso del suo ritiro dalle competizioni a quattro ruote. Dal libro traspare un uomo senza sfumature di grigio, in grado di capire per sè stesso cosa fosse bianco e cosa fosse nero, e soprattutto non attratto dal passato. Tino Brambilla ha privilegiato in carriera il presente e il futuro, con quella fierezza delle proprie decisioni che solo gli ottimisti possono vantare.

La passione per la meccanica è il filo conduttore dell'intero libro, e l'officina di via Birona il punto centrale da cui sono partite molte scintille di vita. Nelle 278 pagine effettive di narrazione viene rappresentato al meglio il Tino Brambilla meccanico, talentuoso e altruista, anche quando al capezzale delle sue riparazioni arrivano gli avversari più veloci. Con uno spirito divertente e divertito, "il Tino" racconta dei lunghi viaggi con camioncini sgangherati verso piste lontane (come Pergusa, ad esempio), e dello strano rapporto con Enzo Ferrari, rimasto sempre cordiale ma mai sfociato in una grande amicizia. Enzo Ferrari vedeva in lui un collaudatore straordinario, ma come è accaduto per molti altri piloti non lo ha mai messo davanti agli interessi della scuderia. In fondo, pure lui era un duro fedele verso i propri ideali.



C'è spazio anche per il racconto spaventoso della tragedia di Caserta (in occasione della gara di F3 in cui persero la vita lo svizzero Fehr e gli italiani "Geki" Russo e "Tiger" Perdomi) e delle sue assurde conseguenze in termini sportivi; per i ricordi dei guasti, ancora intrisi di disappunto; per le orgogliose vittorie, che contribuirono a farlo diventare uno dei piloti più rispettati dell'epoca.

Una parte corposa del libro è dedicata alle amicizie monzesi, e al rapporto con l'amato fratello Vittorio. Si trattava di una Monza assai diversa da quella odierna, dove i momenti di incontro e di svago erano sinceri. Una nostalgia che fa intendere come una personalità del calibro di Brambilla fosse un punto di riferimento (tra i tanti) dell'intera cittadina.

Interessante l'idea di raccontare il libro come se fosse un viaggio sempre più profondo nella personalità di Tino, anche se talvolta la linea temporale si perde di vista. Consonni fa capire nei primi capitoli che in realtà quest'opera non è di facile attuazione, visto il carattere del protagonista, più incline a far parlare le brugole che a perdersi nel viale dei ricordi. La narrazione perde man mano questa caratteristica, trasformandosi quasi più in un'intervista lunga.

Purtroppo, questo libro non è perfetto. La prima critica, più formale ma non per questo meno importante, riguarda la battitura del testo. Sono molti gli errori, e di diverso tipo. Si possono individuare casi "da tastiera" non così grossolani, forse dettati da una rilettura poco attenta o sbrigativa. Ci sono però scelte verbali non convincenti e in generale alcuni periodi mancavano di contesto, magari anche solo per una virgola fuori posto. All'inizio del libro Consonni fa cenno a un timing ristretto da seguire per la consegna del manoscritto, e mette le mani avanti anche su eventuali errori. Una frase che all'inizio mi aveva fatto sorridere per l'insita modestia, ma che poi al voltare dell'ultima pagina ha cambiato decisamente aspetto.

È un peccato che la cura formale del testo sia passata in secondo piano rispetto al contenuto. Chi legge libri sa che basta un nulla per rendere la lettura difficoltosa. Bastano due errori nel raggio di poche pagine per disamorarsi dello stile. Mi rendo comunque conto che l'era dei correttori di bozze è finita, perché altrimenti non avrei scritto questi due o tre paragrafetti ma mi sarei fatto maggiormente coinvolgere dalle straordinarie avventure del "Tino".

Arrivo alla conclusione di questa recensione sostenendo che sono felice di aver acquistato questo libro, principalmente perché Ernesto "Tino" Brambilla è un personaggio enorme della storia dell'automobilismo italiano. Mi ero pregustato tanti bei racconti di vita e sono stato accontentato. E il merito va anche a Walter Consonni, per aver raccolto - seppur con le critiche sopra descritte - testimonianze che altrimenti sarebbero andate perdute.


mercoledì 10 febbraio 2016

Mattia Drudi: Idee chiare, piede pesante

Mattia Drudi è attualmente uno dei piloti italiani più in vista dell'ultima generazione da corsa. Nonostante sia ancora un teenager, ha già raggiunto degli obiettivi di grande livello e mira apertamente al professionismo. La Porsche ha buttato gli occhi su di lui già da tempo e il suo programma con la Carrera Cup e con la Mobil 1 Supercup nel 2016 sarà un banco di prova eccellente per avere un'ulteriore conferma delle sue doti.




Mattia, la tua carriera sembra più profonda di quanto non sia in realtà. E anche nell'atteggiamento dimostri maturità, nonostante tu non abbia ancora conseguito... la maturità scolastica, appunto.
"Sì, mi dicono in parecchi che sembro più maturo di molti coetanei. Il fatto che sono sempre in giro, che ho viaggiato e che ho continue trasferte mi ha dato l'opportunità di fare variegate esperienze. Anche linguisticamente mi aiuta il fatto di parlare molte volte in inglese con gli ingegneri. Sto studiando chimica e vado anche piuttosto bene a scuola nonostante il mio libretto dell'assenze sia ogni mese sempre più pieno... I professori però lo sanno e quindi sono giustificato. Anche questo mi aiuta a essere più rilassato..."

Nel 2016 festeggerai (il 16 luglio) il tuo 18° compleanno. Al di là di ciò, sarà un anno molto interessante per te: con il team Dinamic Motorsport andrai alla caccia del titolo nella Carrera Cup, oltre a fare qualche presenza nella Mobil 1 Supercup.
"L'obiettivo è vincere. Sembra una cosa ovvia, ma è ancor più vero dopo il terzo posto ottenuto lo scorso anno quando ero un rookie. Le aspettative mie sono alte sia per la sfida in Italia sia per quanto riguarda le prove singole che affronterò nella Supercup. In quest'ultima per altro il livello è ancora più alto, con piloti davvero espertissimi e distacchi tra le vetture molto ridotti. Nel 2015 a Monza c'erano venti piloti in un secondo, quindi la lotta è serratissima".



Sembra che per ora il sogno delle formule sia stato accantonato. Dopo un anno in F4 tutto sommato positivo, l'obiettivo Porsche è diventato l'unico esistente. Che cosa hanno in comune questi due mondi?
"Bèh, nelle formula devi sfruttare di più l'aerodinamica, portando più velocità in curva. E per abituarmi alla guida della F4 mi ci è voluto pochissimo. Nelle Porsche bisogna utilizzare al meglio la trazione e saper girare la macchina in curva vista la pesantezza. La bagarre è diversa, più libera se vogliamo. L'anno scorso nelle prime gare della Carrera Cup non è stato facile; nelle prime due gare avevo fatto un po' di errori e sembrava più complicato di quanto non fosse realmente. Alla fine però mi sono adattato bene e anche con meno esperienza i risultati sono arrivati".

Tuo padre, Luca Drudi, è stato grande protagonista nel mondo GT - celebri i suoi successi a Le Mans - e sicuramente è stato un fattore determinante per il tuo avvicinamento al motorsport. Papà è una presenza ingombrante nei weekend di gara?
"Io sono nato praticamente in mezzo ai motori, seguivo sempre mio padre ovunque correva e i miei primi ricordi d'infanzia sono legati a questo mondo. A volte la passione è un colpo di fulmine, nel mio caso invece l'ho acquisita cammin facendo. Vedi le auto, le senti, poi le provi... E tutto comincia. Mio padre mi aiuta molto, sia tecnicamente visto che ha tanta esperienza con le Porsche e con le GT in generale, sia dal punto di vista del morale. Tuttavia devo dire che fortunatamente non è uno di quei genitori che si intromettono o che devono dire la loro a ogni costo".



Che categorie segui maggiormente?
"Guardo tutto quello che mi capita, dalle quattro alle due ruote. Le gare endurance mi divertono molto e in fondo sono anche il mio obiettivo. Mentre le gare americane, che a vederle sono molto belle, non mi attraggono più di tanto. La F1 credo stia diventando un po' noiosa e i risultati dipendono troppo dalle macchine. I compagni di squadra arrivano spesso in coppia e non si capisce chi dei due ha più talento. Le regole sono molto complicate e cambiano per altro troppo spesso. Tra motori ibridi e controllo dei consumi stanno andando un po' fuori dalla retta via, e ormai per correrci servono vagonate di soldi".

Cosa ne pensi delle gare endurance, dove sono iscritte vetture con prestazioni molto diverse e dove si trovano sia professionisti sia gentlemen? In fondo è un ambiente che potresti vivere presto da vicino...
"Allora, un conto è se parliamo della 24 Ore di Le Mans, gara dove sono quasi tutti professionisti e tutte le vetture sono super prestazionali. Mentre invece in gare come la 24 Ore di Dubai ci sono macchine di estrazione davvero diversa, con 30 secondi di differenza in un circuito da quasi cinque chilometri. Le incomprensioni sono ancor più probabili con la presenza di un gentleman driver molto inesperto, ma non si può generalizzare. In fondo è anche grazie a loro se si sono tanti iscritti e con il loro contributo in sponsorizzazioni molti team possono andare avanti, non dimentichiamolo. Se poi le cose sono gestite in modo professionale non ci sono problemi".

L'essere stato inserito nel Programma Scholarship di Porsche Italia ti sta portando benefici?
"Senz'altro. Questa iniziativa è molto importante e a Padova, dove ci incontriamo, ho modo di imparare tanti dettagli utili per cominciare a costruire la mia carriera da professionista. Tra le tante attività dedichiamo anche del tempo alla gestione del rapporto con i media, una fase delicata che interessa molto ai team. Abbiamo ad esempio simulato delle interviste con domande scomode e commentato delle gare in inglese per migliorare la confidenza con la lingua. Molti potrebbero pensare che sia un addestramento per robot, ma secondo me la personalità di ognuno di noi salta comunque fuori, non c'è nessun obbligo formale".

Restando nell'ambito motorsport, cosa ne pensi - anche se detto da un blogger può far storcere il naso - di quel magma indistinto che si chiama Internet? In fondo sei un nativo digitale...
"Internet è un mezzo importante per farsi conoscere e dare notizie. Sui social media si possono fare molte attività utili per la propria carriera e tra queste c'è anche la gestione dei rapporti con i sostenitori, ad esempio. Questi sono i pro, mentre per i contro non si può fare molto. Ognuno può pensare quello che vuole, anche se talvolta i commenti vengono scritti da persone non presenti sui campi di gara. Internet in sostanza ti mette più in mostra e ti rende giudicabile; tutti leggono i miei stati e sanno dove corro. Molti si sentono autorizzati a scrivere, quando fino a pochi anni fa nessuno si sarebbe permesso di dire nulla senza aver visto con i propri occhi".




sabato 6 febbraio 2016

Paolo Meloni: "Quest'anno si cambia!"

Paolo Meloni, dopo anni di CITE, sta per cambiare orizzonte. Ma con criterio. Sarà sempre insieme al W&D e a Massimiliano Tresoldi. Utilizzerà una macchina conosciuta, una BMW M3 E90 con specifiche Superstars. Frequenterà spesso gli stessi paddock dei campionati ACI. Quello che cambia davvero è il tipo di campionato a cui si iscriverà. Parliamo dell'Euro Series by Nova Race, serie che ospiterà GT4 e Superstars.



"In seguito alla chiusura del CITE" - dice Paolo - "abbiamo deciso di correre nell'Euro Series organizzata da Nova Race. Io e Max utilizzeremo quindi una macchina che abbiamo già e che è pronta in officina. Il campionato è molto interessante, caratterizzato anche dalle trasferte all'estero che personalmente mi mancavano. Da questo punto di vista è un cambiamento che mi piace. Non conosciamo bene i nostri avversari futuri, ma noi abbiamo l'abitudine di partire tranquilli senza mettere le mani troppo avanti. Anche gli sponsor sono soddisfatti per via della copertura televisiva garantita. Siamo pronti, insomma".

Il CITE ha chiuso i battenti nella forma in cui l'abbiamo conosciuto fino al 2015, lasciando spazio alla nuova concezione in salsa TCR delle vetture turismo. Questa classe di vettura sarà protagonista in molti campionati nel 2016, anche se la sua accessibilità non è certo gratuita. Cosa ne pensi?
"Il nuovo Campionato Italiano Turismo non è mai stato nei nostri programmi, in realtà. Con le TCR c'è un regolamento molto particolare, e con le nostre macchine non era possibile partecipare. Non avendo intenzione di aumentare i costi con l'acquisto di una nuova vettura, abbiamo lasciato perdere. Il TCR potrebbe sembrare alla portata, ma per una macchina nuova e relativi pacchetti di aggiornamento ci vogliono molti soldi. Senza l'ultimo modello, in pratica, stai a casa. Io auguro al nuovo Campionato Turismo di fare bella figura ma non sarà semplice, perché non sarà più possibile correre con una vettura normale. Spero non venga abbandonato a sé stesso".

La BMW utilizzata nel 2015 (CITE)

La serie organizzata da Nova Race correrà sia su piste italiane sia su autodromi europei (Le Castellet, Slovakia Ring e Barcellona).
"Per un po' di tempo ho corso solo sui circuiti italiani, quindi tornare a correre all'estero sarà senza dubbio interessante. Si tratta di uno stimolo nuovo e la cosa mi intriga. A Le Castellet e allo Slovakia Ring non ho mai corso, quindi posso riassaporare il gusto della novità".

Massimiliano Tresoldi ti accompagnerà anche nel nuovo campionato. Voi due formate una coppia che ha dimostrato di essere vincente...
"Con Max il rapporto è sempre ottimo. Diciamo che è una persona unica. A livello personale è squisito, ha un carattere pacato e di conseguenza non si arrabbia mai. È un pezzo di pane, come si dice dalle mie parti. Per quanto riguarda il suo rapporto con la pista l'atteggiamento cambia radicalmente. Mette l'aggressività giusta ed è un grande merito. Il nostro stile di guida è similare, quindi se l'assetto va bene a lui solitamente è buono anche per Max. Non poteva esserci un binomio migliore".

Con Massimiliano Tresoldi

Cosa ti porta a essere ancora innamorato del Motorsport?
"Sicuramente il mio motore è l'adrenalina, che senti al massimo proprio in procinto di salire sulla macchina. Infatti nelle pause tra una stagione e l'altra sento proprio la mancanza di questa sensazione. Mi manca sentire la macchina al limite, mi manca il confronto con gli avversari sia in prova sia in gara, mi manca la tensione generata dalla gara in sé".

Che campionati segui?
"Bella domanda. La F1 non la seguo, è... pietosa. In realtà mi piace davvero seguire qualche campionato propedeutico, come la GP2, l'Euro F3, la Moto 3. Sono campionati battagliati dove si possono vedere i giovani piloti per come sono, e dove il risultato non è quasi mai scontato. Nelle altre serie la presenza dei senatori mi stufa un po', mentre in quelle che ho detto c'è un bel ricambio. Tornando alla F1 mi è piaciuto solamente Max Verstappen, perché ci ha fatto vedere tanti sorpassi belli e inaspettati".

Spesso si sente parlare di un motorsport italiano troppo conflittuale, a diversi livelli e in diverse circostanze. Tu hai passato un momento difficile dopo la morte di tuo padre, Walter. In questo caso la famiglia motoristica si è fatta sentire?
"Prima di tutto ti dico che la famiglia del motorsport esiste, sì. Ancora oggi incontro persone e conoscenti che a distanza di tanti mesi mi dicono di avvertire la mancanza di una figura così. La sua presenza ai campi di gara manca e a volte non ci si rende davvero conto di questo fatto. Scendiamo in pista per combattere e a volte qualche polemica nasce, ma alla fine si tratta di un gruppo di persone che ha la stessa passione. E quando accade qualcosa che tocca l'animo delle persone nel profondo, allora rispetto e vicinanza vengono fuori".

Con il papà Walter

Hai un ricordo di tuo padre che più di tutti ti scalda l'anima e il cuore?
"Ho talmente tanti ricordi che faccio fatica a selezionarne uno. I più vicini, cronologicamente, sono legati alle tante gare corse assieme e alle vittorie che ci hanno fatto emozionare. In realtà mi è rimasto impresso un episodio in particolare. Ai tempi della Formula Renault mi era capitato di fare un brutto incidente a Vallelunga. Nelle fasi dopo la partenza ero finito addirittura a ruote all'aria, e la macchina si era distrutta. Mi aspettavo una reazione negativa da parte di mio padre, ma al ritorno ai box lui rimase tranquillo, quasi defilato. Era il segnale che io ero l'unica persona a poter governare le mie scelte e che lui sarebbe stato pronto a darmi consigli e il suo esempio, ma senza cercare di influenzarmi o costringermi a seguirlo. Ho sempre apprezzato molto questo lato della sua personalità".

giovedì 4 febbraio 2016

Mario Donnini: il portavoce delle leggende

Credeteci (o non credeteci, fa lo stesso), parlando con Mario Donnini ho realizzato un sogno. Ho conversato con un mio personale eroe, che raccontando di motori e passione per gli stessi è diventato un punto di riferimento per i piccoli avventori della scrittura come me. Le storie di Mario su Autosprint, soprattutto quelle che fanno parte della fortunata rubrica Cuore da Corsa, mi hanno fatto conoscere lati del motorsport che non immaginavo esistessero. Ora io tenterò, con molto coraggio ma probabilmente scarso rendimento, di fare il suo stesso lavoro, raccontando a modo mio il Donnini pensiero.



Il mondo dell'automobilismo sta vivendo un momento particolarmente nostalgico, secondo te? Oppure è un fenomeno che c'è sempre stato?
"Credo che l'unico uomo capace di non provare nostalgia sia stato Adamo. Noi in un certo senso siamo malati di nostalgia. Ed è un sentimento eterno. Gli appassionati di qualche decennio fa rimpiangevano l'automobilismo degli anni trenta. Insomma, l'era d'oro del Grand Prix, con Nuvolari, l'Alfa Romeo, l'Auto Union, la Mille Miglia... In verità ciascuna epoca ha partorito degli eventi molto belli e delle storie straordinarie. Tuttavia gli appassionati sono molto vigili e critici su quanto accade nel presente, salvo poi esserne davvero felici solo in differita. Questo meccanismo psicologico non si vede solo in questo ambito, ma è generalizzato. Anche nelle questioni affettive, ad esempio: le persone si struggono per gli amori persi e vedono il passato con una certa melanconia. Se noi guardiamo alla storia della cultura mondiale negli ultimi decenni scopriamo che il post-moderno, con la sua assenza di valori, ci ha costretto a guardare indietro per poter realizzare il presente. Non per niente esiste una forte ricerca del vintage e c'è un sistematico reflusso verso il passato anche nella moda e nell'arte. Mancando una visione nitida del presente e dovendo fare i conti con una preoccupazione verso il futuro, psicologicamente siamo portati a rifugiarci nel passato. Per concludere: non credo che esista un passato migliore del presente, ma il passato ha sempre un proprio fascino che vogliamo riscoprire".

Con l'appuntamento "Cuore da Corsa", che tu realizzi per Autosprint, hai trovato un modo per canalizzare questo bisogno di storie dal passato, non senza attingere a una doverosa attrezzatura statistica. Sei consapevole di essere diventato per molti un prezioso portavoce del motorsport che fu?
"Ti ringrazio, e devo dire che sarei onorato di essere considerato in questo modo. Prima di tutto devo dire che ho un rapporto fruttuoso con i miei lettori. Mi ritengo fortunato, perché riesco ancora a parlare con appassionati veri che hanno un certo tipo di sensibilità sia verso i ricordi sia verso il presente. Facciamo parte di una fratellanza segreta, o per meglio dire di una loggia virtuosa che mira a destabilizzare e destrutturare le negatività del presente attingendo dal passato. L'automobilismo ha un suo DNA che è radicato nel passato, e talvolta per ripulirsi degli errori del presente deve tornare indietro, recuperando racconti e momenti che possono aiutare a capire ciò che siamo oggi".



Perché secondo te nessun pilota ha come obiettivo traguardi come la Triple Crown (vale a dire la vittoria nella 24 Ore di Le Mans, nella Indy 500 e nel GP di Montecarlo o nel Campionato del Mondo di F1)? Come mai attualmente è difficile trovare qualcuno che voglia dimostrare di saper vincere con tante vetture differenti?
"Prima di tutto rendiamoci conto che chi l'ha conquistata, cioè Graham Hill, non aveva idea di conquistarla. Competere in tutte queste grandi corse è più una voglia di rendere completa la propria carriera. Nessuno approda nel motorsport con l'idea di vincere la Triple Crown. Mi viene in mente Emerson Fittipaldi, che se avesse voluto provare a vincere la 24 Ore di Le Mans sarebbe entrato ancor più nella leggenda.
Io credo che adesso la specializzazione sia diventata quasi ossessiva. Se vinci parecchio e guadagni tanto correndo in una sola categoria cerchi di rimanerci il più possibile, finché ne hai. Non c'è interesse a rimettersi in discussione. Sono meccanismi in realtà più economici che agonistici, e in fondo che interesse potrebbe avere un cercatore d'oro ad abbandonare una miniera appena trovata?
Guardando indietro c'era certamente più versatilità, in stile Michel Vaillant per intenderci. Un pilota, seppure da fumetto, che passava dalle F1 alla 24 Ore di Le Mans, per poi trasferirsi nei rally e quindi tornare di nuovo in pista a Rouen, o a Reims. Un concetto culturale un po' alla francese che è stato ripreso ultimamente da pochissimi. Proprio un francese, Sebastian Loeb, è uno tra questi. Ha sempre avuto voglia di misurarsi con diverse categorie, a cominciare proprio dai prototipi di Le Mans, passando poi per il WTCC e la Dakar. Senza dimenticare la F1 con Toro Rosso, se solo gli avessero dato il permesso. Un altro con la mentalità neoclassica - ma più terrestre rispetto al marziano Loeb - è Stephane Sarrazin, che ha guidato davvero di tutto nella sua carriera.
Non manca proprio nulla per avere altri piloti del genere. Anzi, qualcosa manca: le palle. Graham Hill ha vinto la Indy 500 da rookie nel 1966, anche se pochi si ricordano che in realtà aveva provato la qualificazione ancor prima, nel 1963. Non è una cosa da tutti i giorni passare da una non qualificazione alla vittoria! Non sappiamo ancora quali saranno le futuri tendenze, ma due cose sono certe: la specializzazione è diventata esasperata ma nessuno ha mai vietato ai piloti di volar di fiore in fiore".

Dire che i piloti di oggi sono meno comunicatori dei piloti di ieri è una moda oppure secondo te c'è del vero?
"Consideriamo, prima di tutto, che fino agli anni '70 le interviste a un pilota erano rare. Si trattava di un pleonasmo: il pilota era pagato per correre, e guardarlo era l'unico modo per "leggerlo" davvero. Poi la crescita dei media e la commercializzazione hanno portato i piloti a dover essere non solo bravi a guidare, ma anche a parlare e pensare. I primi personaggi in tal senso furono Jackie Stewart, uomo accomodante ma furbo e bravo a gestire i media, e Niki Lauda, lingua tagliente con la storia della sua vita stampata sul volto.
In realtà il vero problema è che i piloti delle ultime generazioni sono terrorizzati. Un tempo il pilota aveva paura di correre e il fatto di poter lasciare la pelle portava a una grossa iniezione di sincerità: non c'era nulla da perdere... Oggi i piloti rischiano molto meno in pista e parecchio di più fuori, in pratica quando parlano; può succedere di dire la parola sbagliata, si offendono gli sponsor e la carriera è finita. Molti sono nati con il terrore del microfono, e risultano banali, incolori, insapori.
Da questo punto di vista Michael Schumacher è uno dei più grandi maestri. Nonostante un'esposizione mediatica pari se non maggiore a quella di un qualsiasi Presidente degli Stati Uniti, riusciva a parlare per ore senza in realtà dire nulla. Come pilota lo ammiro infinitamente, ma dal punto di vista mediatico faceva dell'ovvietà una barriera. Quando vinceva era abbastanza contento, quando perdeva moderatamente insoddisfatto, e tutto il resto era ugualmente ovvio, il che è mortale per un appassionato intelligente.
Ho ripescato le vecchie interviste ai piloti degli anni '70, e a leggere Graham Hill mi è sembrato di trovarmi davanti a Oscar Wilde: ogni risposta era un aforisma, ogni tre righe un motto di spirito. Era terrorizzato dalla banalità.
Se noi smettessimo di guardare i piloti come degli eroi da sognare, scopriremmo che vengono educati esattamente per far sì che non ci piacciano. Alcuni riescono ad uscire dall'anonimato, ma per la maggioranza si fa fatica. Sono monocorde. Per quanto mi riguarda infatti preferisco intervistare un vecchio pilota, che con la grinta e la rabbia attacca, critica e giustifica come se fosse ancora in pista".

E intervistare uno che ha voglia di parlare fa tutta la differenza del mondo.
"Lavorando per un editore ci sono giustamente degli schemi e delle indicazioni da seguire. Quando vengo lasciato libero, cerco di fare sempre delle cose che divertono anche me. Se io mi diverto probabilmente si diverte anche il lettore, perché dall'articolo o dal libro traspare la mia emozione e la mia voglia di scrivere. Non posso far finta di stare bene quando racconto una storia, altrimenti si nota. Ho da poco parlato con René Arnoux e ho goduto come uno scemo. Quando conosco i miti della mia fanciullezza è sempre straordinario, è come se incontrassi Tex Willer e andassi a cavalcare con lui. Sfatiamo il mito che per scrivere bene bisogna soffrire. La sofferenza aiuta forse solo nella poesia, ma per me nella prosa ci vogliono ritmo e felicità, samba e bossa nova. Chiaramente ci vuole anche la giusta professionalità, che deriva dallo studio, dalla lettura, dalla propria precisione. Ma alla fine scrivere deve essere un'esplosione di gioia".

Com'è cambiato il lavoro giornalistico rispetto a quando hai iniziato?
"La tecnologia ha stravolto tutto. Una volta avevo la macchina da scrivere; se alla decima riga non avevo ancora avuto un guizzo, dovevo appallottolare il foglio. Era una cosa frustrante. Ora non butti mai via niente: arrivi a metà schermo e puoi decidere che lo sviluppo diventi l'attacco e viceversa, puoi cambiare i tempi verbali senza dover sprecare carta e così via.
Il giornalismo è cambiato tanto. Una volta il giornalista andava dietro alla notizia, possibilmente cercando di arrivarci per primo. Attualmente la notizia arriva da te già preconfezionata; è tutto blindato, e internet è una melassa indistinta come lo è la televisione che ancora resiste bene. Prendiamo ad esempio la F1: ci sono delle barriere che impediscono al giornalista di parlare con i piloti, tirate su da quelle che ormai sono corporation piuttosto che scuderie. Siamo alle soglie dello spionaggio industriale, in sostanza.
Vent'anni fa Cavicchi sarebbe stato felice di uno scoop, adesso sarebbe più lieto di leggere una storia raccontata bene e con una chiave di interpretazione interessante. Direi che il giornalista ora è un mediatore, che racconta grandi e piccole epopee, grandi e piccoli personaggi destreggiandosi tra atmosfere e realtà. Possiamo essere più rilassati continuando a raccontare il nostro sport aiutando i lettori a capire la realtà con la nostra interpretazione".

Il motorsport italiano è favorito o sfavorito dalla presenza mediatica della Ferrari?
"Credo che dal 1947, cioè da quando la Ferrari è nata, siano passati pochi anni prima che diventasse leggenda. È stato un processo immediato. La Ferrari è una specie di virtuosissimo buco nero, che assorbe anche le luci altrui, piccole e grandi che siano, per via della sua grandezza. In questo momento il problema non è la Ferrari e non lo è stato nemmeno in passato. Il problema è che ora non c'è manco un Euro. L'Italia sta pagando una grande crisi, chiaramente anche nel settore sportivo dell'automobilismo. Non è un caso che siamo spariti dalla F1 con i nostri piloti. La situazione è così assurda che non si riesce nemmeno a dare la colpa a qualcuno in particolare..."

Quali sono le serie motoristiche che segui?
"Allora... Vivo il rapporto con la F1 come se lei fosse una di quelle suocere proverbiali odiate dall'italiano medio: è una cosa che non ti piace ma che non puoi ignorare. La 24 Ore di Le Mans è l'amante, mentre la 500 Miglia di Indianapolis è la collega che cerco di frequentare perché è arrapante. La vecchia Parigi-Dakar, quella africana, è la ex fidanzata che un po' rimpiangi. Ma la compagna ideale, che nel mio caso ho potuto vivere da vicino, è il Tourist Trophy all'Isola di Man".



Qual è invece la gara che non hai mai vissuto e che ti piacerebbe vedere dal vivo?
"La 24 ore del Nurburgring. Non ci sono mai stato, ma è da una vita che voglio andarci. Non mi interessa chi corre, ci vado solo per il circuito. Mi piacerebbe sfondarmi coi salsicciotti sul ponte di Adenau, vedere un po' di gara dal paddock, osservare il lavoro dei meccanici, i cambi pilota. Insomma, girare il più possibile per vivere la gara al massimo. Non sono uno che sta in sala stampa tutto il giorno..."

Cosa ne pensi della neonata serie, voluta da Alejando Agag, con le vetture guidate da dei software invece che da piloti veri?
"Màh, io credo che il problema sia esattamente il contrario. Attualmente siamo senza la figura del campione leggendario, e sostituirlo con la tecnologia diventerebbe automaticamente una parodia. Giocare con la Polistil è una parentesi conclusa della mia vita e far sì che questo passatempo diventi una cosa seria mi fa venire grossi dubbi. Io non voglio vedere una storia d'amore tra robot, preferisco l'essere umano con il suo cuore pulsante. Abbiamo bisogno dell'umanità, non del silicio. Non mi interessa per nulla vedere un computer che va a trecento all'ora, preferisco un pilota che decide secondo dopo secondo sul da farsi. Amo lo sport dei motori perché a differenza di altri unisce la meccanica all'umanità, con la compenetrazione di variabili infinite. In conclusione: se Omero fosse nato oggi avrebbe ambientato qui, tra gli eroi e la tecnologia delle corse, le sue Guerre e le sue Odissee..."